Da:Enrico Reginato
12 anni di prigionia nell’URSS
Garzanti, Milano 1955.

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Un ricordo pieno di devota riconoscenza va rivolto a quegli Ufficiali che volontariamente si prodigarono nell’assistenza ai compagni ammalati e in quest’opera di abnegazione sacrificarono la vita: il dottor Bosi di Pavia, il Tenente Menada di Genova, il Tenente Supplizi, il Tenente Bresini, il collega austriaco Gomel, che uscì da una zona immune del campo per curare gli italiani. Innumerevoli sono i volti che ora, rievocando, mi tornano alla mente, ma pochi i nomi. Sosti il pensiero del lettore un istante, in una preghiera che li accolga tutti. La mia professione di medico mi porterà sempre al capezzale dei malati e vedrò sempre l’umanità sofferente in lotta disperata con la morte. Ma spero che il destino non mi riservi più le ore di angoscia e di mortificazione vissute in Russia e particolarmente ad Oranki.

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La gioia di questi incontri mi fa dimenticare le sofferenze, le umiliazioni, le iniquità, le angherie subite. Ma arrivati a Udine, madri, sorelle, spose, padri, fratelli di soldati dispersi in Russia, con l’ansia dipinta sul volto, ci assediano. Labbra tremanti mormorano un nome. “L’ha conosciuto? L’ha visto? Dov’è morto? Come è morto?”. Fra scoppi irrefrenabili di pianto vedo mani agitarsi intorno a me, mani che mi porgono fotografie sbiadite di ragazzi fiorenti e vigorosi che non sono più tornati. Come faccio, come posso rispondere a queste angosciose domande che rivelano un dolore senza tregua?