Guido Maurilio Turla
7 Rubli per il Cappellano
Longanesi & C., Milano 1970


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Nel dicembre (1942), con colpi di sorpresa, gli alpini penetrano più volte nella difesa dei russi e ne prelevano sempre qualcuno. Il Don è completamente gelato; tra due linee non esiste più la barriera del fiume. La 22a Compagnia del Saluzzo manda pattuglie notturne per individuare la postazione di “katiusce”. La katiuscia, denominata … è un’arma nuova dell’artiglieria russa; lancia in pochi secondi una trentina di proiettili.

In una notte senza luna il Tenente Piero Menada di Genova conduce una pattuglia al di là del Don. L’impresa è compiuta a sangue freddo: i nostri varcano le linee nemiche, rilevano le postazioni delle katiusce e catturano alcuni soldati, i quali riescono, però, a gridare l’allarme. Il ritorno dei nostri è assai contrastato; il Tenente Menada riesce a riportare il gruppo e fornisce ai Comandi precise informazioni, tanto che a distanza di poche ore l’artiglieria mette fuori combattimento le due katiusce.

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Novaja Kalitva, 19 Dicembre.

La 22a Compagnia del Battaglione Saluzzo continua a resistere sul posto, assicurata, via radio, che sarebbero arrivati in mattinata i reparti della divisione Julia. Intanto cadono un centinaio di alpini, e il loro Comandante, Capitano Percivalle, è gravemente ferito alla regione addominale. Soccorso dal Capitano Fiorenti, viene trasportato a Novaja Melitza, dove gli amministro l’estrema unzione e lo invio in autoambulanza all’ospedale di campo del reggimento. (Il caro amico Percivalle, gravemente ferito, supererà bene l’intervento chirurgico e rientrerà salvo in Italia, dove tuttora vive decorato di medaglia d’argento). Il comando della 22a Compagnia verrà preso dal Tenente Piero Menada; si riesce a contenere l’avanzata del nemico, spostando gli alpini sul versante del Pisello tenuto ancora saldamente dai fanti del Colonnello Cerci, della Cosseria.

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… A mezzogiorno le nostre pattuglie di avanscoperta danno l’allarme. Il Comandante del Saluzzo ordina di tenere a spalla le armi automatiche e la maggior quantità possibile di munizioni; distribuire ad ogni uomo due scatole di carne e tre gallette; mettersi subito in marcia. Il Battaglione riprende il cammino, abbandonando tutto quanto non strettamente necessario al combattimento. Le autocarrette vengono incendiate perché non hanno più carburante. Uomini, slitte e muli procedono carichi solamente di armi e munizioni. La 22a Compagnia (Comandante Piero Menada, subentrato dopo il ferimento del Tenente Percivalle) si era trasferita fuori del paese per fermare il nemico impegnandolo. Alle truppe russe si uniscono ora i partigiani del “kolkoz”, i quali fino a poco prima avevano fraternizzato con i nostri; sparano con le armi tenute nascoste. La 22a è presa tra due fuochi, le perdite sono sensibili: trenta uomini caduti, una decina di feriti e congelati per un determinato itinerario: alle mie dipendenze sono portaferiti, portaordini e fucilieri.

Il Saluzzo, seguito dal Dronero e dal Borgo San Dalmazzo, conduce la colonna del 2° Reggimento. Il Generale Battisti è in testa, con lo stato maggiore della divisione. Dopo 48 ore raggiungono Popovka alle ore 16,00 del 19 gennaio. Gli uomini si ricoverano nelle isbe, sfiniti dalla stanchezza, dalla fame e dal freddo.

A Popovka si spera di trovare salvezza e un treno per il trasporto di feriti che di ora in ora crescono di numero.

La sosta a Popovka è necessaria per dare agio agli alpini di usufruire di un rancio caldo e di riposarsi e di permettere a una colonna della 365a Divisione di Fanteria Germanica di proseguire il ripiegamento.

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Lo schieramento: 23a Compagnia (Capitano Pennacini) collegata con la 15a Compagnia del Borgo; 22a Compagnia (Tenente Menada); Compagnia Comando (Capitano Eugenio Granelli); 21a Compagnia (Capitano Chiaffredo Rabo); la 106a Compagnia armi d’accompagnamento (Capitano Roberto Barbacani) decentra i pezzi a ridosso delle Compagnie attaccanti. Al primo assalto, predominio delle nostre armi automatiche; si avanza a sbalzi sulla neve. La 21a è subito centrata dall’artiglieria russa, che fa i primi vuoti nel plotone del Tenente Giuseppe Abello di Cuneo, il quale cade mortalmente ferito.

Improvvisamente sull’altipiano di Kopanki avanzano mastodontici carri armati russi. Il Battaglione è sottoposto a fuoco incessante. La Compagnia Comando e la 22a sono le più colpite. La fanteria russa, protetta dai mezzi corazzati, slitta in basso sulla neve e contrattacca gli alpini. È un’azione estremamente cruenta; il servizio portaferiti va diminuendo, perché ben pochi dei miei aiutanti sono risparmiati dalla mitraglia. Il colle di Kopanki si va coprendo di cadaveri.

Il combattimento continua. Alle spalle tuona l’artiglieria divisionale; sono in azione i pezzi da 47/32, che tirano sui carri armati russi. È colpito a morte il Capitano Barbacani; era in testa alla Compagnia d’assalto all’arma bianca … Messi a tacere i carri armati, il battaglione decimato compie il decisivo balzo su Kopanki. I russi fuggono.

La notte cala

Raggiungo il limite del bosco quando sul colle si accende nuovamente la lotta … sopraggiungono carri precedentemete occultati dal bosco. Gli alpini sono in un cerchio mortale; pochissimi ne usciranno incolumi. Incontro il Maggiore Boniperti intontito e sfinito: barcolla e urla disperatamente per il disastro. Il nostro Battaglione è distrutto.

Il Saluzzo ha perduto quasi tutti gli Ufficiali e i Sottufficiali; sopravvivono poche centinaia di uomini di truppa. Sono salvi i pezzi della 106a Compagnia cannoni e della 14a anticarro con un’aliquota di ufficiali. Abbiamo combattuto a 35° gradi sottozero. I gemiti e le implorazioni sono altrettante fitte al mio cuore. Ma come aiutarli? Le slitte sono stracariche di feriti e di congelati.

La giornata di Kopanki può definirsi la Parasceve degli alpini del 2° reggimento. Tutti, dal Soldato al Sottufficiale all’Ufficiale, sono stati degni delle tradizioni delle penne nere. Conducenti, portaferiti, telegrafisti, con le sole armi individuali, hanno gareggiato in ardimento.

Le perdite subite dalla Cuneense, dal primo giorno della ritirata, ammontano a ottomila uomini.

Notte di sofferenze e anche di altruismo. Vedo alpini prodigarsi in generosità, sostenendo compagni esausti o caricandosi dello zaino di chi soccombe sotto il peso o ripercorrendo la strada fatta per soccorrere il compagno accasciato.

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Derkupskaja e Nikitovka: 26 Gennaio

Cessata la bufera il mattino del 26 gennaio si riparte. A Derkupskaja siamo accolti dal fuoco dei mortai e mitragliatrici piazzati sul campanile della chiesa diroccata e sulle alture circostanti. Il nostro Generale anche qui dirige l’azione frazionando la colonna in due parti.

I partigiani sparano dalle isbe; i superstiti del Saluzzo e del Borgo entrano di casa in casa colpendo con la baionetta e il calcio del fucile per economizzare le munizioni.

Il furore degli alpini è irrefrenabile. Vicino a me combatte il Tenente Menada; nell’accanimento della lotta corpo a corpo, non avverte di essere stato ferito al braccio da un partigiano, che gli ha sparato una fucilata da poca distanza. Gli fascio la ferita con un lembo di fodera della sua giacca.

raggiungiamo i reparti della Cuneense, che combattono a pochi chilometri da Valujki.

ogni nostro contrattacco s’infrange contro le superiori forze dei russi. Nonostante lo spiegamento di forze nemiche da Nikitovka a Valujki, alcuni nostri reparti filtrano attraverso le maglie fortificate, giungendo a penetrare in Valujki.

gli alpini danno ancora battaglia.

Dopo dieci giorni di combattimenti, dopo duecento chilometri di strada infame e glaciale, le penne nere della Cuneense, della Julia e i Fanti della Vicenza sono costretti alla sorte amara. È il 27 gennaio del 1943.

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Valujki dal 28 Gennaio è affollata di prigionieri italiani, tedeschi e ungheresi. Soldati e ufficiali, dopo essere stati disarmati e depredati, sono rinchiusi in grandi edifici. La parola “edificio” non è appropriata: si tratta in realtà di costruzioni rovinate da bombardamenti. Qui vivono, per qualche tempo, uomini stanchi e preoccupati della propria sorte … si difendono per non soccombere al freddo e alla fame;

Fra loro sono i mutilati, i congelati, i cancrenosi delle divisioni Cuneense, Julia, Vicenza e residui della Tridentina. Nella permanenza a Valujki si hanno rare distribuzioni di vitto; razioni assolutamente insufficienti: una scatola di piselli crudi e un pacchetto di “kasa” (preparato di farina bianca) da bastare per cinque persone. Non abbiamo assistenza sanitaria, né possibilità di ricevere aiuti dalla popolazione … Dopo il quinto giorno si parte per destinazioni a noi ignote.

Nel pomeriggio del 31 gennaio giunge l’ordine di incolonnarsi. Con parole innominabili le guardie russe ci cacciano fuori, come un branco di animali, su uno spiazzo battuto dal vento. Scandito il rituale “davai, bystroy bystroy” (avanti in fretta), ha inizio la marcia dell’annientamento. Il nostro corteo di tremila prigionieri si incammina. È una sera improba per affrontare la steppa; eccezionale il freddo; il vento preannuncia la tormenta. … Il cammino si protrae tutta la notte e tutto il giorno seguente e non ha termine ancora. Ripercorriamo a ritroso la medesima strada della ritirata; si ritorna verso il Don. Dopo Valujki ci addentriamo nella steppa … di notte, per non finire sotto i carri armati o autocarri, che ci accecano con i loro fari, facciamo acrobazie sulla neve. Il cammino è sfibrante. A tratti qualche ora di riposo nei pagliai, dove è impossibile dormire tanto sono stipati di prigionieri; indi si riparte, si cammina sempre, senza mai ricevere cibo. I più deboli e i feriti si accasciano ai margini della pista, mentre la colonna prosegue verso Olijhovatka e Rossosch. Il percorso è segnato da centinaia di cadaveri, spogliati dalle truppe russe e con le membra contorte dal gelo: sono le vittime della ritirata del Don. Al loro fianco e in senso inverso continuano a cadere le vittime della prigionia. Il 2 febbraio siamo a Rossosch. S’abbatte sfinito nella neve il Tenente Colles del mio battaglione. Giornata di sole, ma con raffiche di vento e neve gelata: una burrasca a ciel sereno. Al nostro arrivo in città la popolazione si avvicina, per impulso di solidarietà, a salutare i prigionieri italiani, offrendo pane e patate … vuol dimostrare la sua simpatia agli Alpini, dai quali ebbe aiuti quando a Rossosch era il comando del II corpo d’armata alpino.

Dopo Rossosch riprende la marcia della colonna macilenta: gli uomini con gli abiti a pezzi tentano di ripararsi dal freddo coprendosi il capo con una coperta, lottando contro la morte bianca. Saliamo verso la linea del fronte, un tempo occupata dagli Alpini. Transitiamo sul posto dove ha combattuto il 2° Artiglieria … discendiamo un canalone che porta al Don. Sulla superficie gelata del fiume possiamo dissetarci e rifornirci d’acqua; la sete finora è stata un tormento come la fame. Qualche Alpino precipita nelle crepe di ghiaccio, praticate per attingere acqua. Si va oltre, esausti tra il gelo e la tormenta, mentre partigiani e soldati, dandosi il cambio nella guardia, ci spogliano anche delle cose utili. Molti, cui sono confiscate le scarpe, camminano con i piedi avvolti in pezze. Ogni tanto qualcuno barcolla; si trascina a stento, cade. Un soldato di scorta lascia che la colonna transiti e con una sventagliata di mitra finisce il disgraziato. Le guardie hanno l’ordine di non lasciar prigionieri vivi sulla steppa. Resta dietro di noi una scia macabra di neve arrossata; morti disseminati indicheranno la strada alle colonne di prigionieri che ci seguiranno. Le notti di sosta nei capannoni gelidi trascorrono insonni, lenti e tragiche: ci buttiamo l’un contro l’altro, schiena contro schiena, per riscaldarci a vicenda; intanto feriti e congelati dolorano, i febbricitanti delirano … oh Dio! Se non esistesse la fede a sorreggerci e la tenace volontà di resistere, sarebbe preferibile spegnere la vita.

Le marce si susseguono sempre uguali e funeste. Percorriamo giornalmente trenta-quaranta chilometri, sospinti dalle urla bestiali della scorta … è in gioco la pelle. Non sappiamo quanta strada rimane da percorrere.

I russi dicono che fra due giorni saremo a Krinovaja, dove troveremo “sup” e “hlep” (minestra e pane). Una mattina in un villaggio ci rifiutiamo di partire, per stanchezza, fame, esaurimento. Non abbiamo più forze.

Nonostante le proteste, dobbiamo partire senza assegnazione di cibo.

Il 17 febbraio 1943 giungiamo al campo di smistamento di Krinovaja; siamo partiti da Valujki il 31 gennaio. Prima di entrare facciamo il computo degli uomini sopravvissuti. Della colonna Catanoso, tremila uomini, all’arrivo a Krinovaja ne rimangono cinquecento: tra questi sono inclusi altri italiani, rastrellati lungo il cammino. La sosta fuori dal campo si protrae per due ore: siamo esposti al gelo della notte. Poi si entra. Io sono assegnato a un corridoio senza luce. Appoggio la schiena piagata alla parete incrostata di ghiaccio.

Alba grigia. Mi accorgo di aver passato la notte in mezzo ai morti; tre commilitoni sono immobili ai loro posti … hanno faccia e capelli coperti di neve. Nei box degli Ufficiali della Cuneense ritrovo cari amici.

Siamo ventisette persone costrette nello spazio di solito riservato ad un cavallo.

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Nel frattempo è scoppiato il tifo petecchiale … Era da prevederlo, con quell’accozzaglia di uomini pieni di pidocchi, soffocati in uno spazio insufficiente, privi di ogni servizio igienico.

La sera del 4 Marzo 1943, i prigionieri dell’ARMIR viaggiano in carri piombati … portando nel sangue i germi del tifo … si viaggia in carri bestiame stipati da quaranta-cinquanta uomini. I vivi sono frammisti ai moribondi e ai morti. Nel giro di pochi giorni siamo coperti di pidocchi … Ogni mattina … i morti vengono gettati sul ciglio della ferrovia. Si viaggia da otto giorni senza avere una bevanda.

Bruciati dalla sete facciamo il turno per succhiare l’umidità che il freddo condensa in brina sulle pareti e sui bulloni di ferro del vagone
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