Alfonso Menada

Valenza, 25 Novembre 1825
Pecetto di Valenza, 5 Maggio 1904

                  
 


Menada Alfonso (Pecetto).
Menada Alfonso.

Pecetto di Valenza, 1930.
Nozze d'Oro Menada Gusberti; copri fazzoletto
Nozze d'Oro Menada Gusberti; fazzoletto
Nozze d'Oro Menada Gusberti; foto
Nozze d'Oro Menada Gusberti; foto con nomi

Pecetto, articolo
Pecetto Casa Menada, articolo
Casa Menada, estratto libro di Luciano Orsini

Alfonso Menada nelle note del libro "Storie di Famiglia" di Luisa Bosi

Alfonso Menada era “possidente” e viveva dei proventi delle sue proprietà terriere che non erano però di grande estensione. Non era ricco, ma proveniva da una famiglia di antica tradizione e di buone parentele.

Anche Erminia Gusberti che aveva sposato Alfonso Menada nel 1849, proveniva da una famiglia di alto livello sociale. In mancanza di notizie certe, lo si può dedurre indirettamente dalle parentele milanesi di Erminia e dal fatto che fossero in relazione stretta con personaggi importanti . La madre di Erminia era una Mainoni, ed un suo fratello, Massimiliano, aveva sposato Bettina Fontanelli e risiedeva a Milano. Erminia aveva quattro sorelle: Francesca, maritata Scotti, Bettina che si sposò due volte, prima Cusani e poi Cagni, Amalia in Barbavara e Adele in Schiffi.

Il matrimonio fra Alfonso Menada ed Erminia Gusberti, si rivelò straordinariamente prolifico, con la nascita di 16 figli, in un arco di tempo di vent’anni, dal 1850 al 1870. Erminia infatti partorì per l’ultima volta nell’anno della presa di Roma, dando alla luce un bambino di nome Paolo che non oltrepassò la soglia dei sei anni. E due anni prima, nel 1868, era nata una bambina, chiamata Maria Emilia, morta a nove anni. Perciò Benvenuto, quattordicesimo dei figli, chiamato così perchè non pensasse che la sua venuta al mondo fosse stata male accolta, era in realtà il più giovane dei fratelli che raggiunsero la maggiore età, non l’ultimo, come forse avevano creduto i genitori, scegliendo quel nome.

I coniugi Menada, prima della morte dei due bambini più piccoli, avvenuta alla distanza di un solo giorno l’uno dall’altro nel gennaio del 1877, avevano sepolto altri quattro figli in tenera età: Francesco, morto ad un anno nel 1858, Paola, ad otto anni nel 1860, Luigi a nove mesi nel 1861 ed Eugenio nel 1862 ad appena un mese e mezzo. Anni veramente funesti quelli per i Menada, con nascite e altrettanti lutti a ritmo incessante. Del resto la mortalità infantile, altissima a metà dell’ottocento ed oltre, mieteva vittime senza distinzioni sociali, e una condizione economica agiata non poteva proteggere più di tanto dalle insidie delle malattie, contro le quali la medicina del tempo era pressoché impotente. I figli che riuscirono a superare gli anni perigliosi dell’infanzia, erano perciò dieci, con una netta prevalenza di maschi, sette fratelli e tre sorelle.


Per una famiglia così numerosa occorreva una casa grande e Alfonso andò ad abitare alla “Certosa”, un ex convento di monaci (padri canusiani), costruito nel tardo rinascimento, dove si trovava un pregevole chiostro con colonne di granito intorno ad un cortile interno. La famiglia in paese godeva di grande considerazione e stima, rappresentando il prototipo di famiglia patriarcale di antico stampo, rispettosa dei valori tradizionali e religiosi, ma senza eccessi di rigore e austerità. Soprattutto veniva ricordata come una famiglia aperta agli altri e pronta a fornire aiuto a chi avesse bisogno. “Il signor Alfonso e la signora donna Erminia formavano per tutti oggetto di una venerazione profonda, di un affetto sentito. Ad una dignità piena di grande amore per ogni ceto di persone, univano modi gentili e cortesi al sommo, un altissimo cuore, una carità illimitata”. I più vecchi del paese ricordavano le passeggiate serali della famiglia, la puntuale partecipazione alla messa domenicale: grandi e piccoli, guidati dai genitori, “come un piccolo collegio”. Ricordavano pure quando “i fratelli Menada sciamavano per il paese e la campagna come uno stormo di passeri chiacchierini e festosi”.


Alfonso manteneva la famiglia con le sole entrate dei suoi terreni, probabilmente lavorati da braccianti salariati e non da mezzadri; i redditi erano sempre incerti, dipendenti dalle annate più o meno favorevoli e dagli eventi meteorologici imprevedibili. Le condizioni economiche dei Menada non erano particolarmente prospere e neppure sicure e la numerosa famiglia era costretta ad adottare un tenore di vita modesto per quanto dignitoso, con un’attenzione continua ad evitare sprechi.


Alcune lettere di Giuseppe Menada, scritte nella primavera del 1874 al fratello Francesco che si trovava in collegio a Casale, permettono di gettare uno sguardo sulla vita quotidiana che si conduceva nella “Certosa”. Giuseppe, allora sedicenne, a causa di una infermità o un incidente che l’aveva colpito ad una gamba e gli impediva di muoversi, fu costretto a passare due mesi nella casa paterna, abbandonando Piacenza dove si era stabilito per studiare. Durante questo periodo di “vita noiosissima” per l’immobilità forzata osservava quanto accadeva attorno a lui e ne dava resoconto al fratello. Oltre alle lettere, datate 30 aprile ed 11 maggio 1874, è rimasto uno scritto singolare: Giuseppe, forse per gioco e per ingannare la noia fingeva di essere il redattore di un giornale “L’Opinione” sottotitolato “giornale politico quotidiano, notizie interne e fatti vari”. Oggetto delle cronache erano la vita di famiglia, l’ambiente della campagna fra piante ed animali e i fatti del paese. Iniziava parlando della famiglia e del padre: “In famiglia tutti bene. Papà alquanto noioso e seccato a causa della stagnazione d’affari e dei pochi soldi che prende che non bastano nemmeno a disimpegnare metà degli impegni. Giacomo a casa solitario tutto il giorno......Emilio stanato tutto il giorno da casa Macin a casa nostra, Giuseppe la sua gamba migliorò, non molto contento del suo impiego perchè nulla da fare di buono. Angiolino vola sempre, appena può avere un soldo è una partita che vuol fare”.


Le sorelle avevano appena sostenuto degli esami con esito buono e un cenno viene fatto anche a “Paolino, l’ultimo della cavagna”, che un destino crudele porterà via insieme alla sorella Emilia nel gennaio del 1877. La casa alla Certosa era abbellita da fiori “superbi”, annaffiati ogni mattina, la campagna era “bella” in quell’anno, ma l’uva prometteva un raccolto scarso, con preoccupazione di Alfonso, essendo il vino il prodotto più importante delle sue terre. “Non bisogna parlarne a papà” scriveva Giuseppe, “dice che c’è la malattia e che le vigne non faranno niente e che la vendemmia sarà tardiva”. Invece si preannunciava buono, salvo imprevisti, il raccolto della “meliga”.

Numerosi erano gli animali da cortile: un allevamento di conigli dei quali si attendevano i piccoli, un “gabbione” pieno di uccelli, merli e tordi, le galline e una “pita” (tacchina).C’era anche un cavallo, in quel periodo infortunato per una piaga e in cura dal veterinario, perciò si era costretti ad andare a piedi, un vecchio cane “Pinein”, incattivito e feroce, una “animala” (scrofa) “pingue e bella bestia”. La “mammina” era alle prese con problemi di servitù, con un nuovo “cuciniere” appena assunto, che pretendeva un salario “salato”; altra persona di servizio era “Lissandrino”, uomo tuttofare e fattore. Altra attività molto praticata in campagna, di cui parla Giuseppe a Francesco, era l’allevamento dei bachi da seta, settore affidato tradizionalmente alle donne. E questo argomento forniva l’occasione per ricordare le ragazze del paese con un apprezzamento gentile per ciascuna: una Canepari “sempre una bella donzella”, una Ferrari “sempre viva, sempre simpatica”, una Giulia “sempre piacevole per la sua vivacità”, una Maria “che conserva sempre i suoi belli e rari lineamenti”.

Alfonso Menada mantenne i figli maschi agli studi quanto bastava per intraprendere, al più presto, una professione che garantisse loro un avvenire decoroso. Nessuno infatti frequentò l’università e, verso i 18 anni, tutti entrarono nel mondo del lavoro.