
Menada Alfonso (Pecetto).
Menada Alfonso.
Pecetto di Valenza, 1930.
Nozze d'Oro Menada Gusberti; copri fazzoletto
Nozze d'Oro Menada Gusberti; fazzoletto
Nozze d'Oro Menada Gusberti; foto
Nozze d'Oro Menada Gusberti; foto con nomi
Pecetto, articolo
Pecetto Casa Menada, articolo
Casa Menada, estratto libro di Luciano Orsini |
Alfonso Menada nelle
note del libro "Storie di Famiglia" di Luisa Bosi
Alfonso Menada era “possidente” e viveva
dei proventi delle sue proprietà terriere che non erano però di
grande estensione. Non era ricco, ma proveniva da una famiglia
di antica tradizione e di buone parentele.
Anche Erminia Gusberti che aveva sposato
Alfonso Menada nel 1849, proveniva da una famiglia di alto
livello sociale. In mancanza di notizie certe, lo si può dedurre
indirettamente dalle parentele milanesi di Erminia e dal fatto
che fossero in relazione stretta con personaggi importanti . La
madre di Erminia era una Mainoni, ed un suo fratello,
Massimiliano, aveva sposato Bettina Fontanelli e risiedeva a
Milano. Erminia aveva quattro sorelle: Francesca, maritata
Scotti, Bettina che si sposò due volte, prima Cusani e poi
Cagni, Amalia in Barbavara e Adele in Schiffi.
Il matrimonio fra Alfonso Menada ed
Erminia Gusberti, si rivelò straordinariamente prolifico, con la
nascita di 16 figli, in un arco di tempo di vent’anni, dal 1850
al 1870. Erminia infatti partorì per l’ultima volta nell’anno
della presa di Roma, dando alla luce un bambino di nome Paolo
che non oltrepassò la soglia dei sei anni. E due anni prima, nel
1868, era nata una bambina, chiamata Maria Emilia, morta a nove
anni. Perciò Benvenuto, quattordicesimo dei figli, chiamato così
perchè non pensasse che la sua venuta al mondo fosse stata male
accolta, era in realtà il più giovane dei fratelli che
raggiunsero la maggiore età, non l’ultimo, come forse avevano
creduto i genitori, scegliendo quel nome.
I coniugi Menada, prima della morte dei
due bambini più piccoli, avvenuta alla distanza di un solo
giorno l’uno dall’altro nel gennaio del 1877, avevano sepolto
altri quattro figli in tenera età: Francesco, morto ad un anno
nel 1858, Paola, ad otto anni nel 1860, Luigi a nove mesi nel
1861 ed Eugenio nel 1862 ad appena un mese e mezzo. Anni
veramente funesti quelli per i Menada, con nascite e altrettanti
lutti a ritmo incessante. Del resto la mortalità infantile,
altissima a metà dell’ottocento ed oltre, mieteva vittime senza
distinzioni sociali, e una condizione economica agiata non
poteva proteggere più di tanto dalle insidie delle malattie,
contro le quali la medicina del tempo era pressoché impotente. I
figli che riuscirono a superare gli anni perigliosi
dell’infanzia, erano perciò dieci, con una netta prevalenza di
maschi, sette fratelli e tre sorelle.
Per una famiglia così numerosa
occorreva una casa grande e Alfonso andò ad abitare alla
“Certosa”, un ex convento di monaci (padri canusiani), costruito
nel tardo rinascimento, dove si trovava un pregevole chiostro
con colonne di granito intorno ad un cortile interno. La
famiglia in paese godeva di grande considerazione e stima,
rappresentando il prototipo di famiglia patriarcale di antico
stampo, rispettosa dei valori tradizionali e religiosi, ma senza
eccessi di rigore e austerità. Soprattutto veniva ricordata come
una famiglia aperta agli altri e pronta a fornire aiuto a chi
avesse bisogno. “Il signor Alfonso e la signora donna Erminia
formavano per tutti oggetto di una venerazione profonda, di un
affetto sentito. Ad una dignità piena di grande amore per ogni
ceto di persone, univano modi gentili e cortesi al sommo, un
altissimo cuore, una carità illimitata”. I più vecchi del paese
ricordavano le passeggiate serali della famiglia, la puntuale
partecipazione alla messa domenicale: grandi e piccoli, guidati
dai genitori, “come un piccolo collegio”. Ricordavano pure
quando “i fratelli Menada sciamavano per il paese e la campagna
come uno stormo di passeri chiacchierini e festosi”.
Alfonso manteneva la famiglia con le
sole entrate dei suoi terreni, probabilmente lavorati da
braccianti salariati e non da mezzadri; i redditi erano sempre
incerti, dipendenti dalle annate più o meno favorevoli e dagli
eventi meteorologici imprevedibili. Le condizioni economiche dei
Menada non erano particolarmente prospere e neppure sicure e la
numerosa famiglia era costretta ad adottare un tenore di vita
modesto per quanto dignitoso, con un’attenzione continua ad
evitare sprechi.
Alcune lettere di Giuseppe Menada,
scritte nella primavera del 1874 al fratello Francesco che si
trovava in collegio a Casale, permettono di gettare uno sguardo
sulla vita quotidiana che si conduceva nella “Certosa”.
Giuseppe, allora sedicenne, a causa di una infermità o un
incidente che l’aveva colpito ad una gamba e gli impediva di
muoversi, fu costretto a passare due mesi nella casa paterna,
abbandonando Piacenza dove si era stabilito per studiare.
Durante questo periodo di “vita noiosissima” per l’immobilità
forzata osservava quanto accadeva attorno a lui e ne dava
resoconto al fratello. Oltre alle lettere, datate 30 aprile ed
11 maggio 1874, è rimasto uno scritto singolare: Giuseppe, forse
per gioco e per ingannare la noia fingeva di essere il redattore
di un giornale “L’Opinione” sottotitolato “giornale politico
quotidiano, notizie interne e fatti vari”. Oggetto delle
cronache erano la vita di famiglia, l’ambiente della campagna
fra piante ed animali e i fatti del paese. Iniziava parlando
della famiglia e del padre: “In famiglia tutti bene. Papà
alquanto noioso e seccato a causa della stagnazione d’affari e
dei pochi soldi che prende che non bastano nemmeno a
disimpegnare metà degli impegni. Giacomo a casa solitario tutto
il giorno......Emilio stanato tutto il giorno da casa Macin a
casa nostra, Giuseppe la sua gamba migliorò, non molto contento
del suo impiego perchè nulla da fare di buono. Angiolino vola
sempre, appena può avere un soldo è una partita che vuol fare”.
Le sorelle avevano appena sostenuto
degli esami con esito buono e un cenno viene fatto anche a
“Paolino, l’ultimo della cavagna”, che un destino crudele
porterà via insieme alla sorella Emilia nel gennaio del 1877. La
casa alla Certosa era abbellita da fiori “superbi”, annaffiati
ogni mattina, la campagna era “bella” in quell’anno, ma l’uva
prometteva un raccolto scarso, con preoccupazione di Alfonso,
essendo il vino il prodotto più importante delle sue terre. “Non
bisogna parlarne a papà” scriveva Giuseppe, “dice che c’è la
malattia e che le vigne non faranno niente e che la vendemmia
sarà tardiva”. Invece si preannunciava buono, salvo imprevisti,
il raccolto della “meliga”.
Numerosi erano gli animali da cortile:
un allevamento di conigli dei quali si attendevano i piccoli, un
“gabbione” pieno di uccelli, merli e tordi, le galline e una
“pita” (tacchina).C’era anche un cavallo, in quel periodo
infortunato per una piaga e in cura dal veterinario, perciò si
era costretti ad andare a piedi, un vecchio cane “Pinein”,
incattivito e feroce, una “animala” (scrofa) “pingue e bella
bestia”. La “mammina” era alle prese con problemi di servitù,
con un nuovo “cuciniere” appena assunto, che pretendeva un
salario “salato”; altra persona di servizio era “Lissandrino”,
uomo tuttofare e fattore. Altra attività molto praticata in
campagna, di cui parla Giuseppe a Francesco, era l’allevamento
dei bachi da seta, settore affidato tradizionalmente alle donne.
E questo argomento forniva l’occasione per ricordare le ragazze
del paese con un apprezzamento gentile per ciascuna: una
Canepari “sempre una bella donzella”, una Ferrari “sempre viva,
sempre simpatica”, una Giulia “sempre piacevole per la sua
vivacità”, una Maria “che conserva sempre i suoi belli e rari
lineamenti”.
Alfonso Menada mantenne i figli maschi
agli studi quanto bastava per intraprendere, al più presto, una
professione che garantisse loro un avvenire decoroso. Nessuno
infatti frequentò l’università e, verso i 18 anni, tutti
entrarono nel mondo del lavoro.
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